{mosimage}Il nostro inviato ha trascorso cinque giorni con i marines. «Il comandante adotta le logiche di Petraeus in Iraq»
KHAN NESHIM – La guerra del futuro in Afghanistan è combattuta dalle mura di un antico castello merlato, con tanto di torri circolari, feritoie, i pozzi nel cortile e le mura di fango con gli spalti che si sciolgono alle intemperie nello scorrere dei secoli. I marines del secondo battaglione meccanizzato leggero vi si sono insediati dal 2 luglio e subito hanno piazzato qui, e in altri cinque avamposti, la sala controllo per i "drone", gli aerei senza pilota che da allora pattugliano dall’alto la regione. «Khan Neshin è il nostro campo più meridionale in Afghanistan. Prima di noi qui regnavano i talebani. Dal 2001 solo qualcuna delle nostre pattuglie vi si era avventurata per brevi missioni. Ma il terreno era sempre rimasto sotto il loro controllo. Adesso non più. La differenza è che ora noi siamo qui per restare», sostiene il comandante, colonnello Tim Grattan, 42 anni del Massachusetts, ben contento di ricordare la sua lontana origine napoletana.
LA NUOVA STRATEGIA USA – Polvere sporca, più che sabbia. Caldo, con temperature che a metà giornata sfiorano i cinquanta gradi. Dagli spalti (i contadini locali dicono che la fortezza ha quasi 300 anni) si nota a tre chilometri il riflesso delle acque del fiume che dà il nome alla regione: Helmand. Una volta sinonimo di agricoltura ricca, commerci con Iran e Pakistan. E oggi platealmente associato alle più irriducibili milizie talebane e al traffico di droga. Il Baluchistan è a meno di 80 chilometri. Una fascia di montagne scure a una trentina di chilometri verso est segna invece l’entrata nella regione di Nimruz (ancora regno incontrastato del Mullah Omar) che porta all’Iran. I marines, 570 in tutta Helmand, ma circa 200 stazionati nel castello, vivono perennemente avvolti da questa afa polverosa, che non si lava via neppure dopo la doccia, ricopre brandine, sacchi lenzuolo, zanzariere, mitra, computer e blindati. Siamo restati cinque giorni con loro, dopo un viaggio di trasferimento da Kabul prima in C130 e poi dalla zona di Kandahar con elicotteri da combattimento. L'obbiettivo è quello di raccontare la nuova strategia americana nel Paese, che vede l’incremento sostanziale e nuovi metodi di impiego del loro contingente militare concentrato lungo il confine col Pakistan a sud e nelle regioni orientali.
RADICATI SUL TERRITORIO – «In realtà il nostro comandante in capo, generale McChrystal, sta adottando le stesse logiche messe in pratica da David Petraeus in Iraq due anni fa. Si tratta di fare in modo che i nostri soldati siano distribuiti a pioggia nel Paese. Non devono restare nelle basi, ma uscire, lavorare con piccoli distaccamenti assieme alle nuove forza di sicurezza afghane. Il punto è che stiamo combattendo la guerriglia. E per batterla dobbiamo restare saldamente radicati sul territorio», commenta Grattan. Lo sforzo è immenso e per molti aspetti sembra tardivo. In questa regione di 22.500 abitanti solo 290 si sono recati a votare il 20 agosto scorso. «Le minacce talebane hanno avuto la meglio», ammette lo stesso governatore, Massoud Ahmad Rassouli Balouch, un 26enne scelto tre mesi fa dalle autorità della vicina Lashkar Gah e che due anni fa ebbe un ruolo importante nel negoziato per la liberazione del giornalista Daniele Mastrogiacomo. Lui stesso vive asserragliato nelle zona cinturata dagli americani. I talebani vorrebbero assassinarlo con l’accusa di collaborazione con il nemico.
GOVERNO LATITANTE – A otto anni dalla caduta del regime talebano, da queste parti sembra ancora che la guerra sia finita soltanto ieri. E il governatore fa ben fatica a nascondere i problemi. «È vero. Qui il governo centrale è latitante. Mancano scuole, medici, strade, insomma praticamente tutto. Ma domani vado a Lashkar Gah e mi faccio sentire», sostiene quasi patetico, come se in un viaggio si potesse trovare soluzione a difficoltà enormi, strutturali, ormai sedimentate come la polvere che ci avvolge di continuo. Tema del giorno è il mancato arrivo degli stipendi per la cinquantina di poliziotti faticosamente reclutati prima dell’arrivo degli americani. La loro sede centrale è situata in una fattoria appartenente a un leader talebano locale nella frazione di Qualenau. Ci arriviamo il pomeriggio del 24 agosto dopo un viaggio in autoblindo Lav 25 di mezzora attraverso i resti del raccolto di papaveri. «Oppio, oppio a perdita d’occhio. Questa è la maggiore risorsa economica della zona. E non sta certo a noi distruggerla. Causeremmo solo malcontento e astio nei nostri confronti», sostengono i sei uomini dell’equipaggio.
AGENTI SENZA STIPENDIO – Ma le loro preoccupazioni sono altre. In circa un mese 5 dei loro hanno perduto la vita nelle esplosioni delle mine disseminate dai talebani nella campagna. Ogni volta cercano un tragitto diverso, evitano gli sterrati in prossimità delle loro basi, stanno attentissimi a qualsiasi segno di terra smossa di fresco. Ogni viaggio però potrebbe essere letale. E il percorso si fa in silenzio, tesi, preoccupati. A Qualenau nessuno dei 17 poliziotti è al suo posto. Alcuni stanno facendo il bagno nello stagno vicino, altri dormono, altri ancora si presentano in canottiera e affermano di essere troppo esausti dal digiuno del Ramadan per poter montare di guardia. I marines sono furiosi. «Come potete costruire il vostro Paese se non rispettate la disciplina!», urla alle orecchie del povero traduttore di turno un sergente fuori dai gangheri. Poco dopo viene però a galla un’altra versione. «Da quattro mesi nessuno ci paga lo stipendio. Perché mai dovremmo lavorare?», protestano gli agenti. Gli stessi comandi americani confermano il problema. «È parte delle inefficienze del governo centrale. È vero a Helmand non arrivano le paghe dei poliziotti», afferma il comandante del distaccamento di Khan Neshim, il capitano 38enne Gerard Dempster.
RAZZI E BAZOOKA CONTRO LE BASI – E tuttavia gli agenti accettano, pur di malavoglia, di accompagnare le pattuglie americane a fare il censimento dei contadini rimasti. Molti sono fuggiti. Temevano di restare coinvolti nella guerra tra marines e talebani. E a metà luglio la situazione è stata davvero calda. Le basi Usa sono state prese di mira da razzi e bazooka. Le mine sono cresciute come papaveri. Non sono mancate neppure le schermaglie con armi leggere. È stato allora che i comandi Usa hanno dispiegato il meglio della tecnologia militare d’avanguardia. In coordinamento con le forze che già agiscono in Pakistan, hanno fatto levare in volo i drone e i cieli di Helmand sono diventati gli occhi dell’intelligence Usa. «È incredibile. Sui nostri computer possiamo individuare gran parte dei movimenti nella regione. È una guerra diversa questa. E la tecnologia aiuta a battere la guerriglia», sostiene ancora il colonnello Grattan. Grazie a questo apparato il 21 agosto veniva individuato e ucciso assieme a sei compagni Haji Sattar, uno dei più importanti comandanti della regione. «Stavano viaggiando su di un camion carico di razzi da 107 millimetri da sparare contro le nostre basi. Il drone li ha individuati, seguiti, e quando sono arrivati in una zona aperta per evitare le vittime collaterali tra i civili via satellite abbiamo azionato il suo cannoncino». «Da allora i talebani si sono ritirati più a sud, oppure a Quetta in Pakistan. Altri sono scappati a Nimruz e sono saliti verso Farah, la regione controllata dal contingente italiano basato a Herat», aggiunge.
UN GIOCO LETALE – Ieri abbiamo potuto avere un altro esempio in diretta di questa guerra via web. Sembra un gioco, ma letale. Verso le tre del pomeriggio arriva infatti la segnalazione degli uomini dell’intelligence addetti ad un drone che vola a nord di Helmand che un luogotenente di Sattar sta viaggiando su di un camioncino carico di missili. L’ordine è quello di sparare appena possibile. «Eliminarlo subito, ma attenzione ai civili», dice Grattan agli operatori. Subito dopo però arrivano le immagini del veicolo, color bianco, fermo tra un gruppo di costruzioni nella campagna. Occorre attendere che riparta. Ma qualche cosa non funziona. Le nuove immagini del veicolo in viaggio lungo un canale mostrano che i missili non ci sono più. Qualcuno sostiene che anche l’autista potrebbe essere diverso. L’ordine rientra. I drone restano puntati sul gruppo di abitazioni sospette. Più tardi si esce in pattuglia a piedi per la campagna. Una dozzina di soldati, più il traduttore, Said, un americano della Carolina, ma di origine afghana, che lavora come contractor su base annuale. Si procede lenti, ancora facendo attenzione alle mine. Il caldo è opprimente, sotto il giubbotto antiproiettile le camice sono intrise di sudore. Le fattorie sono quasi tutte vuote, cortili con ancora i resti dei fiori di oppio anneriti dal sole, cancellate chiuse di fretta.
«NON BRUCEREMO I CAMPI» – Sembra evidente che qui c’è stata da poco una fuga generale. Pure qualcuno è restato. Quanto i marines entrano nei recinti delle abitazioni escono ad accoglierli solo gli uomini. Le donne sono tutte nascoste. I soldati cercano di fare un censimento con tanto di questionari già preparati. Goffi, giovani, troppo giovani per questo lavoro. È stato detto loro che da queste parti le donne non vanno mai guardate. E loro si voltano disciplinati ogni volta che chiedono agli uomini di farle cambiare di luogo per poter completare le perquisizioni. I cani ringhiano, i bambini chiedono dollari e caramelle. I soldati domandano ai contadini se hanno bisogno di un medico e se hanno votato. E questi mentono rispondendo di sì. Mentono anche quando dicono che non producono droga. Qualcuno dice però: «Un pochino, non saprei come fare altrimenti a mantenere la mia famiglia». E i ragazzoni americani li rassicurano. «Non preoccupatevi. Non saremo noi a bruciare i vostri campi». Rientriamo alla base che è l’imbrunire. Il momento di rompere il digiuno del Ramadan. Anche il mercatino sempre aperto presso le mura del vecchio castello è assolutamente deserto. I marines speravano di comprare qualche anguria e un po' di verdura. Anche oggi dovranno accontentarsi delle loro razioni militari.
Fonte: www.corriere.it