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Gli stabilimenti e il canone scomparso

16 de junho de 2009 - Por Comunità Italiana

{mosimage}Ogni anno il Demanio riscuote solo un terzo degli affitti Versilia e Liguria, spiagge costose ma solo per i bagnanti

 

Il Twiga, stabilimento balneare extralusso in Versilia, affitta ogni cabina a 4 mila euro a sta­gione, più o meno la stessa cifra che fino al 2007 versava allo Stato come canone di concessione per un intero anno. E molto meno del prez­zo di mercato di un monolocale nel­la stessa zona. L’albergo Marinella di Nervi, 12 stanze da oltre 100 euro a notte con suggestivo affaccio sul mare della Liguria, paga di conces­sione poche centinaia di euro al me­se. E anche in questo caso il prezzo è decisamente di favore. Ancora, lo stabilimento le Dune di Ostia, sul li­torale romano, per quasi 30 mila metri quadrati di arenile presi d’as­salto dai turisti nella bella stagione, corrisponde al Demanio poco più di 30 mila euro all’anno. E l’elenco è lunghissimo: sono oltre 24 mila le concessioni demaniali marittime as­segnate e censite in Italia. Ma forse sono più di 28 mila. Nessuno lo sa con certezza, perché non esiste una banca dati unica. Dovrebbe essere comunque un tesoretto. Invece ren­de poco allo Stato, ma in compenso fa diventare ricchi i fortunati titola­ri. Secondo una stima della società pubblica Patrimonio dello Stato, gli stabilimenti versano per le conces­sioni appena il 5% del fatturato del­le proprie attività, mentre per una normale attività commerciale, se­condo le associazioni di categoria, l’affitto del locale incide fino al 35-40% del giro d’affari.

Così, nonostante gli adeguamen­ti ai canoni introdotti con la Finan­ziaria del 2007, il piatto, cioè le cas­se pubbliche, piange. Secondo i dati dell’Agenzia del Demanio nel 2008 su 280 milioni da riscuotere, lo Sta­to è riuscito a incassarne appena 103 milioni. Poco più di un terzo. E gli altri dove sono finiti? Sono rima­sti nelle tasche dei titolari delle con­cessioni. E risulta difficile riuscire a farglieli tirare fuori. Anche per il 2009 le previsioni sono nere: il De­manio teme di non riuscire a incas­sare nemmeno la metà di quanto dovrebbe. E proprio domani Mauri­zio Prato, direttore del Demanio, an­drà al Senato per sollecitare inter­venti legislativi per mettere ordine. Le competenze infatti sono fram­mentate, in alcuni casi la gestione delle concessioni è delegata alle Re­gioni, in altri ai Comuni. A volte nei piccoli centri i funzionari gestisco­no in maniera discrezionale tutto ciò che riguarda le concessioni. E manca un coordinamento centrale. Risultato: ci sono stabilimenti che non pagano la concessione e fanno finta di niente, «tanto nessuno con­trolla». Altri che hanno deciso di continuare a pagare il vecchio cano­ne perché ritengono gli aumenti in­giusti e hanno deciso di farsi lo sconto da soli. Altri ancora invece hanno presentato ricorsi in varie se­di contro gli aumenti. E per adesso fanno orecchie da mercante alle ri­chieste del Demanio. Poi ci sono an­che quelli che pagano la concessio­ne, ma molti poi la fanno fruttare più del dovuto con qualche piccola furbizia: utilizzano senza specifiche autorizzazioni arenili e spiagge an­che come discoteche, centri sporti­vi, addirittura come beauty farm a cinque stelle, facendo decollare gli incassi. E come accertato dai con­trolli a campione della Guardia di Fi­nanza, gli stabilimenti balneari so­no spesso terreno fertile per lavoro nero o comunque irregolare e eva­sione fiscale. E se il fatturato com­plessivo dichiarato è stimato intor­no ai 2 miliardi, secondo l’Agenzia delle entrate ci sarebbe almeno un altro miliardo di giro d’affari som­merso.

I ministri che negli anni hanno cercato di regolamentare e mettere a frutto il patrimonio balneare, e cioè prima Vincenzo Visco per il centrosinistra e poi Giulio Tremon­ti per il centrodestra, hanno dovuto fare i conti con la lobby dei titolari degli stabilimenti balneari, che per anni è riuscita a respingere qualsia­si tentativo di nuova regolamenta­zione del settore. Solo nel 2007 gli stabilimenti hanno finito per accet­tare, obtorto collo, gli adeguamenti dei canoni. Ma il settore resta una jungla. Ci sono Comuni, come Ro­ma, dove le concessioni sono state rilasciate anche per una durata di 25 anni. E senza aprire i bandi a nuovi operatori: vengono passate di padre in figlio, come se fossero beni di famiglia, anziché patrimo­nio pubblico. Addirittura c’è un mercato: le concessioni non posso­no essere vendute, ma i titolari ce­dono direttamente le società a cui è intestata l’autorizzazione. Un modo per aggirare, legalmente, la legge. Ma in forte odore di speculazione. A Fregene, alle porte della Capitale, un imprenditore che pagava 1400 euro al mese per uno stabilimento che in un solo in week end incassa migliaia di euro ha ceduto l’attività per 2 milioni di euro. E casi analo­ghi sono stati segnalati in Roma­gna, Toscana e Abruzzo.

Inoltre, le spiagge per legge do­vrebbero essere classificate per fa­sce qualitative e i canoni parametra­ti con importi più alti per i lidi mi­gliori e più bassi per gli altri. Secon­do le stime delle Capitanerie di por­to, nelle fasce più basse rientrereb­bero meno del 25% delle spiagge. E invece oltre il 90% è finito fra i lidi per i quali i canoni sono minimi. Po­co importa poi se i clienti arrivino a pagare per un ombrellone e due sdraio anche 30 euro al giorno in questi stabilimenti che sarebbero «popolari», ma hanno prezzi da ca­pogiro. «È una vergogna naziona­le», dice Angelo Bonelli, ex capo­gruppo dei Verdi alla Camera che da anni raccoglie e studia il proble­ma delle concessioni demaniali ma­rittime. E aggiunge: «Non c’è esem­pio in Europa e nel mondo di una gestione colabrodo del patrimonio marittimo come in Italia che ha por­tato inoltre a un processo di priva­tizzazione delle spiagge. Di fronte a canoni per le concessioni così ridi­coli anche di 300 euro al mese con fatturati milionari, vediamo da un lato lo Stato che perde centinaia e centinaia di milioni di euro, e dal­l’altro che il godimento delle spiag­ge da parte dei cittadini si trasfor­ma in un problema sociale, per l’im­posizione illegale del pagamento di un biglietto per l’ingresso». E del re­sto c’è anche una controprova dello spreco di denaro pubblico. A Aci Ca­stello, in Sicilia, il Demanio ha pre­so direttamente in gestione lo stabi­limento del Lido dei Ciclopi, confi­scato alla mafia: nel 2008 l’incasso ha superato i 640 mila euro, con ol­tre 130 mila euro di utili. Il busi­ness, per chi lo sa sfruttare, vale.

Fonte: www.corriere.it 

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