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Che tipo di pasta piace a Sud e quanta ne mangiano

18 de setembro de 2017 - Por Fernanda Queiroz
Che tipo di pasta piace a Sud e quanta ne mangiano

 

Dire pasta è come dire Italia ed è un amore che dura da secoli. Si consumava già ai primi del Medioevo e da allora molte cose sono cambiate, ma non il piacere di mangiare un buon piatto di pasta. A confermarlo sono i dati: oggi in media ogni italiano consuma 24 chili di pasta all’anno e la nostra produzione di 3,2 milioni di tonnellate ci rende i leader mondiali nel settore. Ma ci sono da fare le dovute differenze: il consumo non è uguale su tutto il territorio. Al Sud si mangia più pasta che al Nord. Secondo l’elaborazione di Aidepi (Associazione delle industrie del Dolce e della Pasta Italiane) su dati IRI, nel 2016 nel Mezzogiorno sono state vendute oltre 378mila tonnellate di pasta, il 36% del totale. Il doppio rispetto al Nord Est e un terzo in più rispetto a Nord Ovest e al Centro. Nel solco di questa tradizione, la novità è il crescente gradimento per la pasta integrale: quasi la metà del campione (47%) dichiara di acquistarla, mentre 3 anni il consumo di fermava al 14%.

E’ l’alimento preferito dal 48% dei meridionali

Nel Mezzogiorno – secondo una ricerca Doxa-Aidepi – il 99% mangia pasta, in media 4-5 volte a settimana e per il 48% è l’alimento preferito. Molti intervistati hanno dichiarato di sceglierla essenzialmente per il gusto, ma non sono mancati quelli che invece la mangiano anche per ragioni di salute. Tra Nord e Sud c’è una differenza anche sulla tipologia acquistata: da Roma in giù viene preferita la pasta secca (4 pacchi su 10 sono venduti nel Mezzogiorno), mentre il Nord Ovest è leader per quella fresca.

Di conseguenza al sud il consumo di pasta è leggermente superiore alla media nazionale, circa 25-26 chili pro-capite all’anno. Lo scenario però sembra in evoluzione: i veri fan della pasta stanno spostando il baricentro geografico verso il Centro Italia – dove il 45% mangia la pasta tutti i giorni, contro il 32% del Meridione. E la porzione media di un piatto di pasta nel Sud è di circa 80 grammi a persona, registrando la percentuale più bassa del Belpaese.

50 anni fa la legge di ‘purezza della pasta’

Era il 1967, esattamente 50 anni fa, quando fu approvata la cosiddetta ‘legge di purezza sulla pasta, l’unica normativa del genere voluta dai produttori che, fissandone i limiti qualitativi, garantisce alla pasta italiana di essere la migliore al mondo. “Vogliamo rimettere al centro della pasta la mano del pastaio, ingrediente invisibile e spesso dimenticato del nostro piatto simbolo – spiega Mario Piccialuti, direttore di AIDEPI. Alcuni vogliono far credere che per fare una pasta buona servano solo materie prime eccellenti, ma c’è molto altro. È importante che gli italiani riscoprano la passione, la storia, la ricerca, i test sensoriali e di laboratorio, insomma tutto l’impegno dei produttori dietro una ottima forchettata di pasta.”

Liscia al Sud, rigata al Nord: ecco le preferenze degli italiani

Non c’è che l’imbarazzo della scelta sul formato della pasta, Aidepi ne ha censiti oltre 300 tipi. Ogni italiano ha il suo preferito, ma anche in questo caso il Paese si divide in due, con Roma a fare da spartiacque tra due mondi e due filosofie. Dalla Capitale (esclusa) in giù la pastasciutta piace liscia, che con il 13% delle preferenze tocca le punte più alte di gradimento a livello nazionale. “Da noi nel Sud d’Italia la pasta è quella liscia per antonomasia – commenta Giuseppe Di Martino, pastaio di Aidepi e presidente del Consorzio Pasta di Gragnano IGP – e c’è una ragione ben precisa. Storicamente a Napoli, la pasta rigata veniva prodotta solo per i mercati del Nord. Era venduta dai Gragnanesi sul mercato di Roma e chiamata per questo “uso Roma”, da cui i famosi Rigatoni romani, ottimi con la pajata.

Vengono invece indicate “uso Bologna” le farfalle, un formato che riproduce la tradizione emiliana della pasta sfoglia e che richiede, sia in produzione che in cottura, un buon equilibrio tra le ali e il nodo. Stile “Napoli” sono invece Ziti e Mafaldine insieme a tutte le variazioni di formati lisci.” Va detto che il 20% del campione sostiene che non esiste un formato migliore, ma tutto dipende dalle ricette. Lo conferma Di Martino: “Basta pensare al sugo alle vongole, impensabile senza uno spaghetto o una linguina. Sono formati perfetti per abbracciare il condimento e legarlo alla pasta grazie alla leggera perdita di amido dalle sue “alette”. Allo stesso modo, è impensabile abbinare gli spaghetti a un sugo importante come un ragù napoletano perché è troppo ‘pesante’ per essere catturato tra le spire di un formato così sottile. Molto meglio gli Ziti spezzati o lo spessore e la porosità di una fettuccina”.

Ma perché la pasta rigata veniva venduta al Nord e a cosa si deve il gradimento per questo formato da Roma in su?

 

“Al Nord questi formati sono diventati popolari per mascherare possibili difetti di produzione dovuti a tempi di essiccazione più lunghi. Con la sua texture di ‘picchi’ e ‘valli’, la pasta rigata in cottura espone all’acqua più superficie, resta più al dente nella sua parte spessa e rilascia più amido da quella più sottile – spiega ancora Di Martino. Dà la sensazione di una pasta tenace anche quando è per metà sovracotta, mascherando eventuali difetti di produzione. Ecco perché questi formati erano popolari al Nord, dove prima dell’’invenzione’ dell’essiccamento artificiale, l’assenza di un microclima prevedibile e stabile rendeva più lungo e problematico questo processo.

Nelle coste italiane del Sud, il clima temperato secco e prevedibile permetteva, invece, di asciugare all’aperto grandi quantità di pasta, con un basso rischio commerciale. Da noi i tempi dell’essiccazione variavano tra gli 8 e i 20 giorni d’estate, a seconda del formato e del livello di umidità. Al nord potevano durare mesi… Ancora oggi a Gragnano dopo l’ora di pranzo arriva puntualmente la brezza che dal mare si incanala nella nostra valle, portando con sé una percentuale di umidità che permetteva la produzione di pasta per 12 mesi all’anno, con risultato finale di qualità costante, uno dei segreti tramandati da secoli dai nostri pastai”.

I tre fattori che rendono buona la pasta

Per i meridionali di regioni come Campania, Abruzzo, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia gli indicatori di qualità della pasta sono:

il fatto che resti al dente e tenga la cottura (78%)
il tipo di grano (71%)
come riesce a legarsi al condimento (58%)




Le 10 curiosità sul piatto più amato dagli italiani

1.In Sicilia è stata inventata la pasta secca – Le prime testimonianze relative alla produzione di pasta secca nel nostro Paese arrivano dalla Sicilia musulmana, in epoca medievale, nel corso del XII secolo. Il geografo arabo Idrisi parla di “un importante polo produttivo di pasta in forma di fili” a Trabia, vicino Palermo, mettendola in relazione con l’attività molitoria già preesistente. E’ da qui che la pasta secca di semola di grano duro ha conquistato lo Stivale, passando per Napoli e arrivando a Genova.

2.Sardegna e Puglia fanno scuola nel XIV e XV secolo – Sotto la dominazione aragonese, Sicilia e Sardegna sono tra i principali centri di produzione di pasta secca del Mediterraneo. Da lì la pasta partiva per Barcellona, Maiorca e Valencia, ma anche Genova, Napoli e Pisa. E nel Quattrocento si hanno testimonianze dell’attività di produzione di pasta secca in Puglia: località come Acquaviva delle Fonti, Gravina, Ascoli Satriano e Brindisi diventeranno celebri nell’arte pastaria dando vita ad un ricco commercio tale da far concorrenza a quello napoletano nel corso del XIX secolo.

3.La licenza “extraendi pastillos” concessa ai comandanti delle navi siciliane (e genovesi) – A dimostrare che la pasta ha sempre amato il mare e i porti: nel XV secolo, un’ordinanza delle autorità di Palermo concedeva ai comandanti delle navi l’autorizzazione (“licentia extraendi pastillos”) a prelevare durante i viaggi tra i 10 e i 30 rotoli di maccaroni e vermicelli “per uso personale”. La stessa consuetudine era in uso anche al porto di Genova.

4.XVI e XVII secolo: estro e “ingegno” dei pastai napoletani – A cavallo tra questi due secoli si assiste ad un’importante evoluzione col passaggio ad un sistema di produzione più intensivo. La Campania applicherà per prima le innovazioni tecnologiche attraverso l’utilizzo della gramola a stanga, basata sul principio della leva per pressare l’impasto di acqua e farina, poi del torchio a trafila, un marchingegno che pressa la pasta lavorata su trafile modellate in varie fogge, dando vita a formati di pasta diversi tra loro. Senza il torchio a trafila, inoltre, non ci si poteva iscrivere alla corporazione dei pastai napoletani, come previsto negli statuti della corporazione del 1579. La pasta prodotta con questo macchinario verrà definita “pasta d’ingegno” e diventerà sinonimo di pasta secca di alta qualità.

5.Nasce il mito di Gragnano e Torre Annunziata – In questo stesso periodo nasce l’industria manifatturiera della pasta di Torre Annunziata e di Gragnano che, grazie al sapere degli artigiani della pasta campani, all’ottimo grano duro a disposizione (importato soprattutto dalla Puglia e più avanti, dal Mar Nero, con la famosa varietà Taganrog) e ai capitali messi a disposizione dai primi mugnai-imprenditori locali, nel corso del XVIII secolo diventerà polo principale famoso in tutto il mondo.

6.Pulcinella diventa simbolo della pasta – I napoletani, fino al Seicento chiamati “mangiafoglie”, si guadagnano a fine Settecento l’appellativo di “mangiamaccheroni”. A quei tempi il consumo procapite di pasta è di 14 chili l’anno. Da fine Settecento, la pasta secca da piatto delle tavole nobiliari diventa cibo popolare per eccellenza perché è buona e costa poco. Si afferma come piatto unico dei poveri e, più timidamente, come ‘primo piatto’ dei più benestanti, che la consumano 2 o 3 volte la settimana. E ‘incontra’ Pulcinella, la maschera più conosciuta della tradizione partenopea. Secondo Anton Giulio Bragaglia “il principale attributo di Pulcinella sono i maccheroni (…) che egli può portare anche in tasca, già conditi e fumanti”, tratteggiando un’immagine che sarebbe tornata in un celebre film di Totò.

7.Il sistema di essiccazione “alla napoletana”- Il segreto della qualità della pasta secca napoletana e gragnanese in fase preindustriale? Il connubio di ottima semola di grano duro e l’abilità dei pastai di sfruttare e un clima favorevole per un’essiccazione perfetta. Scirocco e Tramontana, con la loro alternanza di umido e secco, erano considerati ingredienti fondamentali del processo produttivo, da saper dosare e miscelare allo stesso modo di semola e acqua, per ottenere una pasta di qualità.

8.Da Napoli si impone la cottura ‘al dente’ (e il condimento al pomodoro) – Sono sempre i napoletani ad imporre nel XIX secolo l’abitudine di consumare la pasta ‘al dente’, cioè con il nerbo del grano ancora percettibile. Prima, infatti, la pasta veniva sempre stracotta per ore, soprattutto sulle tavole nobiliari del centro Nord, fin quasi a sfaldarsi. Sono contemporaneamente gli strati popolari e le famiglie benestanti napoletane, nei primi dell’Ottocento, ad introdurre la cottura al dente, o “vierd vierd”, gettando la pasta nell’acqua solo quando questa raggiungeva il bollore. Quasi contemporaneamente i “vermicelle con le pommodore” diventano un abbinamento quotidiano, fissato da Vincenzo Corrado nel suo “il cuoco galante”, dove trovano spazio anche altre ricette classiche come il timballo di maccheroni e il sartù di pasta.

9.7 dei 10 maggiori pastifici sono nel Sud – Anche dopo l’Unità d’Italia il Sud mantiene il suo primato nell’industria della pasta. Nel 1882 a Torre Annunziata viene introdotta la pressa idraulica a gotto montante per trafilare i maccheroni, realizzata dall’Officina Pattison. E qualche anno dopo fa il suo ingresso la gramola a coltelli. Si tratta delle innovazioni che renderanno i primi anni del Novecento l’epoca d’oro della produzione pastaia del Sud. Solo a Torre Annunziata questa industria faceva vivere ben 3000 famiglie. Nel 1870 un pastificio di Bari impiegava ben 5 torchi idraulici e, ancora all’inizio del XX secolo, 7 dei 10 maggiori pastifici italiani hanno sede nel Mezzogiorno.

10.La pastasciutta nella valigia dell’emigrante – A cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento la pasta segue le rotte dell’emigrazione verso il nord d’Italia ma anche verso il resto del mondo. E’ una fase decisiva del processo di espansione e di conquista dei mercati da parte di questo alimento, vista la consistenza del numero degli emigranti meridionali (quasi 4 milioni, solo verso l’America, in appena 10 anni, dal 1901 al 1910) e il loro attaccamento nei confronti di questo alimento, diventato nel frattempo una delle principali fonti di sostentamento in anni di carestia e povertà. Sono, così, consueti i viaggi in treno con le scorte di spaghetti, formaggi, salumi, olio, pane e vino raccontati anche sul grande schermo dal cinema neorealistico e dalla commedia all’italiana. (agi)

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